I problemi emorroidari si manifestano con il sanguinamento e il dolore dei cuscinetti situati nel canale anale che, nei casi più gravi, possono andare incontro a prolasso. Mentre nel caso di emorroidi di II grado questo fenomeno si riduce da solo e in quelle di III grado il riposizionamento dei tessuti è possibile manualmente, nei casi più gravi di emorroidi (IV grado) non è possibile ridurre manualmente la fuoriuscita dei cuscinetti ed è per questo motivo che entra in gioco la chirurgia.
A questo proposito ricordiamo due delle principali tecniche chirurgiche tradizionali per la cura delle emorroidi prolassate, interventi piuttosto impattanti sul paziente perché prevedono l’asportazione di tessuti (“emorroidectomia”) e che pertanto si tende a non applicare in favore di metodi chirurgici meno invasivi; tuttavia per completezza descriviamo brevemente anche questi due metodi chirurgici:
Emorroidectomia “chiusa” secondo Ferguson
Il metodo, messo a punto negli USA nel 1952, consiste nella rimozione chirurgica dell’eccesso di tessuto che causa il prolasso delle emorroidi; dopo l’asportazione vengono chiuse le ferite mediante suture riassorbibili. Molto apprezzato oltreoceano ma poco praticato in Italia, il metodo Ferguson è caratterizzato da recidive rare e presenta un buon livello di efficacia. Tuttavia, il problema principale è rappresentato dalla guarigione poiché le ferite nel retto sono sollecitate dal passaggio delle feci e causano spesso forti dolori durante la convalescenza.
Emorroidectomia “aperta” secondo Milligan e Morgan
In questo caso la tecnica chirurgica, messa a punto nel Regno Unito nel 1937, asporta i tessuti emorroidari in modo analogo alla precedente con la differenza che le ferite vengono lasciate aperte così da consentirne la spontanea e naturale cicatrizzazione. Nel 95% dei pazienti operati con questa metodica per la cura delle emorroidi la guarigione è completa, anche se avviene in tempi piuttosto lunghi (dalle tre alle sei settimane) ed è spesso associata a forti dolori.